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I paradossi in psicologia

escherstair

Il paradosso è un concetto speciale in psicologia e ha ricevuto molta attenzione soprattutto dagli psicologi che hanno studiato a fondo la comunicazione umana all’interno delle relazioni sociali. Il paradosso in greco indica una “contro opinione”, ovvero la conclusione contraddittoria di un ragionamento corretto basato su premesse sensate. In altre parole, partendo da affermazioni che hanno un senso, una volta messe a confronto ne scaturisce una conclusione contraddittoria. Da un punto di vista psicologico, l’aspetto rilevante riguarda i processi mentali attivi nella mente per trovare una risoluzione che non può esserci e che sono accompagnati da una particolare reazione emotiva.

Possiamo raggruppare i paradossi in tre grandi famiglie:

  1. i paradossi logico-matematici (le antinomie);
  2. le definizioni paradossali dovute a certe incoerenze nascoste a livello del pensiero e del linguaggio;
  3. i paradossi pragmatici (le ingiunzioni paradossali).

Un esempio di antinomia è rappresentato dal paradosso “la classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse”, tradotto in un esempio: c’è un insieme cui appartengono tutti i libri, oggetti che hanno una proprietà in comune per essere raggruppati, quindi esiste un altro insieme cui appartengono tutti quegli oggetti che hanno in comune la proprietà di non essere libri. Ebbene, se un’asserzione affermasse che un oggetto appartiene ad entrambi i due gruppi sarebbe contraddittoria perché non può esserci un libro che sia un libro e un non libro nello stesso tempo.

Le definizioni paradossali appartengono al regno della semantica, cioè quelle contraddizioni dovute alle stranezze del linguaggio piuttosto che alla logica. Un celebre esempio è costituito dall’asserzione: “Io sto mentendo”. Se provaste a seguirne lo sviluppo interpretativo arrivereste alla conclusione che io sto mentendo quando non sto mentendo, cioè l’affermazione è vera quando non lo è (e viceversa). Un modo per chiarire la confusione consiste nello “smontare” la frase in due livelli: in uno c’è il linguaggio oggetto, “io sto mentendo”, cioè dico una cosa non vera, in un secondo metalivello diciamo qualcosa su questa asserzione, cioè che è vero che sto dicendo una falsità. Proseguendo il ragionamento possiamo trasformare il precedente metalivello in un nuovo livello-oggetto e capovolgere i significati di verità e falsità, in una catena regredente teoricamente infinita…

I paradossi pragmatici sono quelli che manifestano la loro insostenibile realtà nelle relazioni umane e che possono sfociare in condotte psicotiche. Una categoria tipica di paradossi pragmatici è rappresentata dalle ingiunzioni paradossali, ricorrenti generalmente in una forte relazione complementare (madre -figlio, terapeuta-paziente, ufficiale-subordinato). Lo schema tipico prevede un’ingiunzione che deve essere eseguita, ma deve essere disobbedita per essere obbedita. In questa dimensione paradossale rientrano tutte quelle richieste di comportamenti specifici che per loro natura non possono essere richiesti, cioè quelli spontaneii, ad esempio: sii spontaneo, dovresti fare come desideri, non essere così ubbidiente, puoi fare quello che vuoi, dovresti aiutarmi [per un approfondimento del paradosso in terapia puoi dare un’occhiata qui]. In un’ottica più politica ed ideologica, i sistemi totalitari fanno un uso sistematico dei paradossi pragmatici e Orwell (1984) e Koestler (Buio a mezzogiorno), a mio parere, sono i due scrittori più significativi che hanno saputo rendere sapientemente questa tortura psicologica.

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Nel 1956, Bateson e collaboratori pubblicarono un articolo in cui proponevano un’ipotesi di lavoro sull’insorgenza della schizofrenia (Per una teoria della schizofrenia) basata su un paradosso pragmatico. Il loro presupposto consisteva nel fatto che il comportamento del paziente psicotico, per quanto bizzarro e contraddittorio, ha un senso all’interno di un preciso contesto relazionale in cui le sequenze interattive di comunicazione in definitiva lo generano. A questo proposito coniarono il termine doppio legame (double bind) col quale viene designata una relazione tra due o più persone coinvolte in modo intenso da un punto di vista della sopravvivenza fisica e/o psicologica. Nel doppio legame si presenta una tipica modalità comunicativa: viene comunicato un messaggio in un modo tale che si dà ad intendere un altro messaggio che lo contraddice.

Sono due messaggi, in genere uno di contenuto (ad esempio, sei stato bravo) e uno di relazione (espressione facciale o tono della voce che sembrano dire: potevi fare molto di più…) che si escludono a vicenda [puoi trovare un approfondimento qui]. Chi riceve un messaggio di questo genere si trova in difficoltà a trovare una via di fuga, nonostante il fatto che sia evidente la contraddizione logica. Ma non si tratta di un problema logico-matematico o filosofico, bensì di una realtà pragmatica. Il ricevente non può non reagire, ma come si può reagire ad un paradosso se non in modo paradossale [con la malattia]?

Questa condizione diventa più evidente nei suoi effetti problematici in psicologia clinica quando viene proibito, in modo più o meno esplicito, di mostrare consapevolezza della contraddizione percepita nell’ingiunzione. Ad esempio, quando il genitore insiste a dire che non è deluso (nonostante il tono disprezzante o desolato) del comportamento del figlio, il quale infine non sa a cosa affidarsi se alla versione del genitore (garantendosi la vicinanza discutibile) o a quella fornita dalla propria percezione (contraddittoria alla versione genitoriale). Ronald Laing denomina questo meccanismo con il termine “mistificazione”.

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L’ipotesi di Bateson sulla schizofrenia ha suscitato un importante dibattito e ormai appartiene ai manuali di storia della psicologia. Nonostante le revisioni e il ridimensionamento del valore eziopatogentico, ha avuto l’indubitabile valore di mettere in luce la dimensione relazionale del disagio psico-emotivo. Il paradosso nella sua qualità pragmatica, che più interessa, manifesta le sue criptiche e sofisticate conseguenze in funzione dell’altro. Al contrario di una visione intrapsichica, individualistica e lineare del comportamento umano cui spesso ricorre la logica medico-organicistica del tipo “infezione–>infiammazione–>malattia”.

In sostanza, quando si vuole etichettare un paziente come malato, anziché attribuirgli un’etichetta (malato) indipendentemente dal mondo sociale in cui vive, si rivela più appropriato spiegare il suo comportamento in funzione di un contesto familiare ben preciso. Non è facile uscire da una logica lineare che applica una qualità intrinseca e univoca alla persona, che induce a sottovalutare l’interconnessione sociale della mente umana. In modo più rigoroso e brillante questo errore di prospettiva lo hanno descritto circa cento anni fa Russell e Whitehead nei Principia Mathematica:

“La logica tradizionale sbagliò completamente, perché credeva che esistesse una sola forma di proposizione semplice e precisamente una forma che attribuisce un predicato ad un soggetto. E’ questa la forma adatta per assegnare le qualità ad una data cosa. Possiamo dire: questa cosa è rotonda, rossa e così via. Se diciamo però: questa cosa è più grande di quella, non assegniamo soltanto una qualità a questa ma una relazione tra questa e quella. Perciò proposizioni che stabiliscono una certa relazione tra fra due cose hanno forma differente dalle proposizioni di tipo soggetto-predicato. Il non essere riusciti a capire questa differenza, o il non averne tenuto conto, ha dato origine a molti errori nella metafisica tradizionale. Il fatto di credere, come convinzione inconscia, che tutte le proposizioni sono della forma soggetto-predicato, in altre parole, che ogni fatto consiste di qualcosa che ha qualche proprietà, ha fatto sì che gran parte dei filosofi non fosse capace di dare una spiegazione del mondo della scienza e della vita quotidiana”.

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All’approccio sistemico precedentemente esposto, non meno importante è quello temporale, cioè il ruolo del paradosso della memoria e le conseguenze psicopatologiche. Le ricerche mostrano che la natura della memoria è ben diversa dall’idea comune che la ritrae come un hard disk [puoi farti un’idea leggendo questo articolo]. In un articolo del 1972, lo psicologo e ricercatore Endel Tulving  introdusse un’importante distinzione tra la memoria semantica che ha lo scopo di archiviare i fatti in base a criteri astratti e generali (ad esempio, quale è la capitale d’Italia, chi è il presidente degli Stati Uniti, qual è la somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo) e la memoria episodica che si riferisce a specifici momenti del passato personale, come quando hai dato il primo bacio o cosa hai mangiato ieri sera a cena.

Può succedere che certe esperienze traumatiche possano generare una contraddizione tra quanto è dichiarato e interpretato in forma narrativa nella memoria semantica e le tracce degli eventi nella memoria episodica. Ad esempio, in caso di un abuso sessuale o di maltrattamenti ripetuti, soprattutto in relazioni particolarmente significative e prolungate nel tempo (come genitore-figlio), la vittima si trova a dover gestire una copresenza di memorie dal significato emotivo paradossale ed irrisolvibile. Questa situazione può essere provocata dalla sistematica manipolazione del carnefice che deforma la percezione e il senso della realtà del bambino. Ad ogni modo, il carnefice può oscurare il ricordo episodico inflitto rinarrando il fatto in modo tale che il piccolo vi attribuisca dei significati accettabili.

Col tempo le tracce episodiche rimangono fuori dalla coscienza (cioè rimangono implicite), mentre la memoria semantica fornisce una versione del rapporto e degli eventi in generale positivi. Tuttavia, possono esserci degli episodi che riattivano le emozioni dei drammatici episodi subiti in passato, generando stati dissociati della coscienza in cui c’è una multipla e contraddittoria rappresentazione della relazione in atto.

Si assiste ad una vera e propria disorganizzazione dello stato della coscienza, che perde la caratteristica forma lineare e flussiforme così che la mente slitta verso stati crepuscolari della coscienza. I numerosi bug impliciti della memoria episodica disintegrano la coerenza del racconto (memoria semantica e autobiografica), la continuità del tempo e dello spazio (derealizzazione), procurando uno stato dissociato in cui l’integrità dell’io si dissolve col prevalere di più versioni della realtà di se stessi, dell’altro e del mondo con esiti psicopatologici.

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Non tutti i paradossi conducono a dissociazioni o psicosi familiari. I paradossi sono presenti nel linguaggio, nelle aspettative, nei giudizi, nei comportamenti, nelle battute di spirito, nella quotidianità. Nella maggioranza dei casi o non ce ne accorgiamo o ci meravigliano per la loro stranezza. Per la potente propensione umana nel produrre previsioni, essi sono degli imprevisti inevitabili. Le previsioni ci procurano l’illusione del controllo e i paradossi non solo le smentiscono ma “si integrano” nella nostra mente, nelle nostre relazioni e nella nostra cultura, insomma i paradossi funzionano! Ciò che conta è l’uso che se ne fa nei diversi momenti e ambiti, e bisogna maneggiarli comunque con cura.

 

Letture consigliate:

L’io diviso di Robert Laing, ed. Einaudi

Paradosso e controparadosso di Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata, ed. Feltrinelli

Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick, J. H. Beavin e Don D. Jackson, ed. Astrolabio

Sviluppi traumatici di Giovanni Liotti e Benedetto Farina, ed. Raffaello Cortina

Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson, ed. Adelphi.

4 risposte su “I paradossi in psicologia”

Gesù stesso nel Vangelo usa diverse volte ad arte rapporti di doppio legame ad esempio nella guarigione dei 10 lebbrosi e nel saluto alle donne il mattino di Pasqua. “Salute a voi” era un saluto laico e romano, non religioso ed ebraico. In quest’ultimo caso il livello traumatico del doppio legame si sarebbe manifestato se fosse stato rivolto ai soldati romani che lo crocifissero. Cfr. Ebook di Ravecca Massimo (Amazon): Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.

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