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Una punteggiatura personale

In questi giorni, i ragazzi di quinta hanno iniziato le prove dello spettacolo teatrale per la chiusura dell’anno scolastico. Si tratta di una articolata danza folkloristica, basata su musiche, balli e un soggetto ispirato al teatro di De Filippo. Al momento dell’assegnazione delle parti Giuseppe* non ha gradito il suo ruolo ed è andato a sedersi in fondo alla platea non partecipando più alla prova. Non è la prima volta che esterna questo comportamento provocatorio. Mi pare di aver già parlato un po’ di Giuseppe in qualche post precedente: statura piccoletta, capelli biondi e lunghi, viso angelico, avaro di relazioni, oscilla tra una chiusura disperata ed esplosioni di rabbia che diventano invettive e accuse contro maestra e gruppo classe.

Stavolta la maestra ha optato per un atteggiamento evitante. Ha accettato l’autoesclusione di Giuseppe senza batter ciglio. Ma Giuseppe, prontamente, ha subito ingranato la tattica del rilancio strillando dal fondo del teatro, scagliando alcuni pezzi di gesso verso il palcoscenico, scrivendo parolacce sul muro. Infine, al rientro, è scappato in classe rincorso da alcuni compagni che erano intenzionati a seguirne l’escalation con un misto di sconcerto e sgradevole compiacimento. Io non c’ero perché mi ero attardato in teatro con Giulio (autistico). In classe i ragazzi mi hanno raccontato tutto, le parolacce, i pianti disperati, le accuse verso tutti perché (perennemente) ritiene di essere preso in giro, le sedie in aria, i calci a vuoto.

Che fare? Mi sono chiesto mentre ascoltavo il divertito resoconto dei ragazzi. Hanno quasi tutti 10/11 anni. Sono svegli, attenti, morbosamente curiosi e ormai abili a nascondere la paura. Ho messo da parte tutte le domande “eziologiche” e gli imperativi prescrittivi. Serviva qualcosa subito, meno professionale o personalizzato. Istintivamente ho chiesto perché secondo loro Giuseppe si sia comportato in quel modo. Tutte le congetture avevano un denominatore comune: Giuseppe è strano e loro non sanno che farci se non esserne occasionali spettatori. Allora ho sostenuto che gli spettatori hanno sempre bisogno di uno spettacolo e mi hanno guardato con un certo interesse. Mi sono avvicinato alla lavagna, ho disegnato due punti distanti, x e y, collegandoli con una linea. Ho spiegato brevemente che ogni volta che cercavano la causa (x) del comportamento (y) di G (esempio: poiché G ha dei problemi psicologici, si comporta da matto), a me veniva in mente un cerchio e l’ho disegnato.

Ho aggiunto: “quando dite: lui ci accusa che lo chiamiamo nano, ma non è vero! (risatine e ammiccamenti), Giuseppe si comporta affinché voi possiate chiamarlo nano. Giuseppe fa in modo che voi lo vediate come un nano. Lui non lo è naturalmente, siete voi che lo trasformate senza volerlo (?) in un ragazzino nano“. Dopo un breve silenzio, Luigi che dimostra una personalità da leader avanza l’osservazione svagata: ma così allora siamo anche noi ammattiti! Io aspetto che qualcuno risponda per me. Ma nessuno parla. Guardo il cerchio e affermo che in un cerchio non è possibile trovare l’inizio e la fine. “Finora avete provato a rendere tutto semplice, G è matto e noi subiamo le sue pazzie, Zelig fa ridere e noi lo vediamo, il cellulare è figo e lo riceviamo come regalo così anche noi siamo fighi… tutto appare come una linea retta che unisce due punti.  Però vi accorgete che questa regola non è sempre facile da applicare. Magari non vi deluderà quando l’applicherete a oggetti o a strumenti, ma con le persone i collegamenti saranno simili alle curve di un cerchio. E quando imparerete a trovare la sequenza di un inizio e una fine, sarà soltanto una vostra scelta, una punteggiatura personale distinta da quella degli altri.

Poi sono andato a sedermi vicino a Giulio. Il suo compagno di banco Manfredi, appassionato di karate, si è avvicinato. Me lo aspettavo. Intuivo che mi avrebbe fatto parte delle sue inquiete riflessioni. Ormai conosco bene le sue paure e la sua indomabile curiosità. Tanto ha fatto che è riuscito a farsi assegnare il posto vicino a Giulio per pormi, al momento giusto, domande che hanno bisogno di essere rassicurate. Maestro, nel karate ci insegnano a trovare in ogni problema da affrontare il giusto equilibrio, così posso riuscire presto ad affrontare le linee curve! Mi piace la sfrontata sfida di Manfredi che riesce ad esprimere in poche parole. Ho risposto più o meno così: “posso dirti una cosa che ho imparato dai miei errori: il mondo può essere capito con tante forme, non solo con linee rette o cerchi”. E mi è venuto in mente un breve testo letterario di Abbott.

“C’é un racconto che parla di una realtà piatta, chiamata flatlandia, dove vivono esseri piatti: è il mondo a due dimensioni. Nella storia uno di questi esseri scopre che esiste un mondo a tre dimensioni, cioè spacelandia: è la realtà dell’altezza o della profondità, cioè quella di noi esseri umani. Nel finale”, aggiungo con fittizio mistero, “tuttavia l’Autore raccomanda di stare attenti, se c’è una terza ci sarà pure una quarta dimensione e così via. Avrai modo di scoprire le tue forme preferite soprattutto insieme ad altre persone”.

Mi ha guardato, con le fossette agli angoli della bocca, il sorriso di chi è in bilico tra linee rette e curve. Io avrei voluto continuare a raccontargli che ci sono ricerche importanti che hanno dato per certo l’esistenza di altre dimensioni, forse qualcosa di simile ai sogni. Mi immaginavo realtà che si autogenerano, sistemi complessi che emergono da equilibri rotti. Cercavo di immaginare le regioni del cervello che creano questa prodigiosa replicazione sempre più astratta. Poi mi sono accorto che Manfredi stava aiutando Giulio ad abbottonarsi il grembiule e non ho detto nulla. Soltanto in silenzio ho aggiunto, rivolgendomi idealmente a Manfredi, che “quando ti trovi in difficoltà con questa strana geometria, cerca un adulto di cui ti fidi perché possa darti una mano a scavalcare la linea della tua età”.

2 risposte su “Una punteggiatura personale”

Certo che i ragazzini di oggi sono molto più svegli di quelli di un tempo (insomma, dei miei tempi). Però i problemi sono gli stessi. Forse quelli come te (ti piace la definizione?) fanno si che a volte quei problemi non si trascinino fino all’età adulta.

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No, la definizione non è verosimile. Io ero un disastro a scuola: creavo problemi e questo era controproducente (all’epoca si era indulgenti e più maneschi). Però, sai, i bimbi di oggi sono più mediatizzati (finiscono pure nei blog!) e sappiamo moltissimo di loro. Di noi, piccoli scolari chini sui sussudiari, sappiamo così poco!

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